Fregature di Stato e sfide

Fregature
Il governo annuncia che prima di iniziare i lavori di grandi opere saranno sentite le comunità locali. Ovviamente il parere non sarà vincolante. Per la serie, diamogli il contentino facendoli parlare, poi decidiamo noi per fatti nostri come abbiamo sempre fatto. Al mio paese si dice: “ti faccio fesso e contento”. Poi dicono che uno si sente stanco di scrivere di politica.
Terremoto all’Aquila: fu subito mandata la richiesta al Fondo Europeo (sì, soldi), per avere un aiuto economico dall’UE. Terremoto in Emilia: stessa cosa. Terremoto al Pollino: nessuna richiesta, ed il governo non ne parla neanche. I lucani e calabresi dovranno farcela da soli. Viva l’Italia.
Informazione in Italia: la notizia del TG1 che ha avuto più spazio temporale non è stata nè la morte di un operaio ILVA nè il Consiglio dei ministri interrotto per la fiducia in parlamento, e che riprenderà domani mattina alle nove. E’ stato il ritorno in libertà di Wanna Marchi. Se entra in politica, è l’unica che può competere con Berlusconi, in quanto a capacità comunicative e di fregatura. Auguri a tutti.
 
Cronache dal passato remoto
Era la seconda metà degli anni ’80, ed era domenica mattina, era primavera e c’era il sole. In primavera la domenica mattina ero sempre impegnato: c’erano le partite del campionato regionale a squadre di scacchi, ed io ero un appassionato giocatore. Dovevo avere più o meno 17 anni, e qulla mattina giocavamo in casa, contro un’altra squadra della provincia di Napoli. Sulla carta, eravamo due squadre all’incirca alla pari, per cui la sfida sarebbe stata all’ultimo sangue.
Ero in quarta scacchiera, giocavo con i pezzi neri. Dopo la prima ora di gioco, avevo un buon vantaggio, non solo posizionale, ma anche materiale sul mio avversario. Un vantaggio qualitativo che mi avrebbe consentito di vincere la mia partita, e contribuire così al risultato di squadra.
Il mio avversario stava riflettendo, poichè toccava a lui il tratto, alle sue spalle vidi camminare lentamente, guardando le scacchiere, il capitano della mia squadra. Stava cercando di farsi un’idea di come stesse andando. Si fermò ad osservare la posizione sulla scacchiera, vidi i suoi occhi roteare velocemente su tutte e 64 caselle, notò il mio vantaggio. Mi guardò per un attimo negli occhi, senza sorridere e senza cambiare espressione, mi strizzò l’occhio e si voltò, allontanandosi verso la sua scacchiera.
Dopo un’altra ora di gioco, mentre piano piano costruivo una vittoria certa, feci una stronzata tremenda. Con decisione mossi un pezzo, una torre per la precisione, e la misi in presa al mio avversario. Il tempo di premere sul tasto sull’orologio, e mi accorsi subito di aver fatto l’unica mossa talmente sbagliata da capovolgere in un solo attimo il risultato. Restai impassibile. Il mio avversario restò a riflettere 10 minuti buoni: una mossa del genere gli fece venire il sospetto di chissà quale trappola, e ci mise tempo per capire che avevo semplicemente fatto una stronzata, e non c’era dietro nessun piano fatale. Prese la torre, ora il suo vantaggio era incolmabile. Avevo sbagliato, meritavo di perdere la partita. Ma c’era un particolare grave.
Quando si trattava di tornei individuali, allora la perdita di una partita era un fatto personale, proprio, con conseguenze sul proprio andamento sportivo, che può condizionare il proprio risultato finale, ma quella era una partita del campionato a squadre, pertanto la mia sconfitta avrebbe assunto, dal punto di vista della responsabilità, un peso ben diverso: il trascinamento verso la sconfitta di tutta la squadra, se la mia sconfitta non fosse stata compensata dalle vittorie degli altri. Guardai le altre scacchiere. Sulla prima eravamo pari, sulla seconda eravamo noi in vantaggio, sulla terza stavamo perdendo. Quindi risultato pari sulle prime tre scacchiere. Io ero sulla quarta: perdendo io, perdeva tutta la squadra.
Guardai di nuovo verso la prima, dove c’era il mio capitano, stava riflettendo sulla sua mossa successiva. Attesi che muovesse. Non appena lo vidi premere il tasto dell’orologio, mi alzai e andai al suo tavolo. Mi chinai verso il suo orecchio e, molto mestamente, gli rivelai la notizia: “Gli ho messo una torre in presa. Mi dispiace. Ho sbagliato. Mi sa che devo abbandonare”.
Mi rivolse un’occhiata furba, poi con il capo mi fece cenno di uscire sul balcone (la sala di gioco era al primo piano). Uscii e lui mi raggiunse subito. Mi disse poche cose, semplici e dirette come era nel suo stile: “No non devi abbandonare. Hai una torre in meno, giochi con una torre in meno.”
“Ma è persa…”
“E allora? Adesso hai sbagliato tu, ma sei concentrato bene, stai giocando bene. Quindi comportati bene, gioca bene. Chi ti dice che tra 10 mosse non sbaglia lui? No no, Alessa’, nessuno ha mai vinto una partita abbandonata, e proprio perchè l’ha abbandonata. Giocala fino alla fine. Se sei più bravo, saprai recuperare, se non sei più bravo, allora ricorda che non sbagli solo tu, ma sbagliamo tutti. Ora vai, gioca, e fagli vedere chi sei. E se proprio perdi, pazienza, almeno l’avrai giocata fino alla fine.”
 
Il mio avversario non era più forte di me, ma quel vantaggio di una torre gli consentì di vincere la partita. Non sbagliò, non perse il vantaggio che gli avevo regalato. A causa della mia sconfitta, tutta la squadra perse. In casa, contro un avversario pari sulla carta.
Sconfitta grave, ma quel giorno, perdendo, non persi la lezione. Se si sbaglia, si finisce in una posizione magari scomoda, perdente, ma dopo lo sbaglio, non si molla la partita. La risalita, anche se non è certa, non è mai impossibile. Si stringono i denti e si continua. Mai abbandonare la partita, anche quando le cose si mettono male, si tiene duro fino alla fine. Come disse il capitano quella domenica, dopo l’errore che fa mettere male le cose, comportati bene, gioca bene, e con le mosse giuste anche una partita persa potrebbe addrizzarsi.
Appresi questo principio, che è più o meno alla base di tutti gli sport ma anche della vita, prima di quel giorno non lo applicavo affatto. Questo principio l’ho sempre trasmesso: agli altri giocatori quando divenni io il capitano, a tutti i giocatori della società scacchistica quando ne divenni il direttore tecnico, ai miei colleghi ed amici universitari quando li bocciavano ad un esame e volevano mollare l’università, agli amici quando la fidanzata si allontanava in seguito a qualche dissapore, infine in questi mesi ai miei alunni quando prendono quattro al primo compito.
Oggi però lo dico a me stesso, e me la ripeto. Perchè mi serve. Ora tocca a me.

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